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Un'alluvione, tre immagini

Sono tre le immagini che mi porterò nel cuore riguardo questi giorni. La prima è di paura. Si somma alle tante che ciascuno di noi ha visto sulla rete: la mia racconta di un rimorchio di camion attorcigliato come un’etichetta alla colonna di un ponte sul fiume Roja. Questo esondando ha portato un lago di fango dentro Ventimiglia, ha isolato intere comunità strappando le strade che permettevano di accedervi, come è successo al paese di Airole, si è incontrato con il suo affluente Bevera portando a valle decine di autovetture e tutto quanto incontravano lungo il loro percorso al mare. Purtroppo il carico di distruzione ha cominciato da lunedì anche a contare delle vittime i cui corpi sono stati rinvenuti martoriati sulla spiaggia.

 

La seconda immagine è di nostalgia e dolore. Riguarda la passerella che collegava le due parti di Ventimiglia e di cui ora rimane solo più un breve tratto. Come tutti l’ho attraversata godendo di quel panorama unico: non solo collegava due pezzi della città nel suo percorso, ma in perpendicolare diventava anche la linea di unione tra la montagna e il mare, con un risultato visivo assai suggestivo. Una nostalgia che altri hanno provato davanti alle strade devastate che percorrevano per raggiungere gli incantevoli luoghi di fresco e riposo della valle vivendo in famiglia e tra amici scampagnate di festa. Le stesse vie utilizzate dai turisti per raggiungere la Liguria dal Piemonte passando per la Francia. Su internet i commenti sono carichi di angoscia: «mai più forse si potranno riutilizzare quelle strade, tutto è finito» recitano i più pessimisti.

 

Dolore quindi per lo sguardo smarrito di negozianti che hanno perso tutto, per cittadini che vedono la loro casa irragiungibile e circondata dal fango, per chi conta i danni alla proprietà con garage che contengono macchine ormai ridotte a rottami e giardini e orti dove tutto è stato devastato.

 

La terza immagine infine è di speranza ed ottimismo e riprende due ragazzi con gli stivali addosso e una pala in mano. Non hanno perdite da annotare, nessun danno a persone loro care o cose di proprietà: sono scesi nel fango per dare una mano a chi sta piangendo e facendo i calcoli di quanta rovina gli è caduta addoso. Li vedo raggiunti da tanti amici coetanei come loro. La scena intorno ricorda una zona di guerra ma questi ragazzi, che non poche volte sottovalutiamo perchè non siamo in grado di capirli, stanno lavorando e cantando. Un panino preparato condividendo anche quello all’ora di pranzo e poi la ripartenza. Un parroco porta loro il caffè preparato dall’anziana mamma: si scherza con serenità solo un momento perchè poi bisogna riprendere il lavoro. Le previsioni di domenica scorsa riportavano pioggia nel pomeriggio e questo può rendere le cose ancora più complicate. Non ci sono divise addosso a questi ragazzi, non appartengono di necessità a chiese o ad associazioni: davanti al male rispondono con la semplicità dell’esserci, del lavorare senza paga e senza orologio, a volte improvvisando ma pronti ad ascoltare le indicazioni di protezione civile e vigili per massimizzare il risultato di aiuto.

 

Tutto questo è stata la nostra terra nello scorso fine settimana: continua ad esserlo lontano dai fari dei media nazionali, mentre le insegne sono ancora per lo più spente, i supermercati annunciano mesi di chiusura davanti ai danni subiti e le strade portano ancora il marchio oscuro del fango. Il sole però è tornato a splendere, anticipato da quei ragazzi: «fratelli tutti».